Di Marco Almagisti e Francesco Jori
- Per comprendere lo stallo in cui versa il sistema politico italiano dobbiamo approfondire quanto accaduto ad inizio anni Novanta, quando il nostro Paese ha vissuto una crisi drammatica del sistema partitico che non ha eguali fra le democrazie consolidate.
- L’epicentro della crisi è stato nel Nord. In particolare, nel Nordest una borghesia di piccola e media impresa, in cerca di rappresentanza e di efficienza, ritira la delega ai partiti di governo e premia la Lega. Oggi in Veneto si discute criticamente delle interpretazioni legate a quella fase.
- È comprensibile (e condivisibile) la rivalutazione del ruolo di governo della Democrazia Cristiana e, in generale, di partiti strutturati e dotati di storia, ma dobbiamo interrogarci sulle ragioni che li hanno condotti alla crisi e su come ripensare oggi la rappresentanza politica.
Ad inizio degli anni Novanta il nostro paese ha vissuto una crisi drammatica del sistema partitico che non ha eguali fra le democrazie consolidate. Ha provocato non solo un drastico ricambio della classe dirigente, bensì anche il naufragio delle tradizioni politiche fondatrici della Repubblica e la scomparsa dei loro simboli (che in politica, come altrove, sono sostanziali). I fattori scatenanti sono esogeni: la politica italiana del secondo dopoguerra è stata fortemente condizionata dalla contrapposizione mondiale fra i due blocchi (Ovest capitalistico ed Est comunista) e contrassegnata dalla presenza del più forte partito comunista dell’Occidente. Pertanto, la caduta del Muro di Berlino ha innescato una serie di conseguenze significative, fra cui la riduzione del voto al partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, in funzione anticomunista. A questi fattori esogeni si aggiungono mutamenti endogeni: anticipata da numerosi segnali negli anni precedenti, provenienti soprattutto dall’Italia nordorientale, alle elezioni del 5 aprile 1992 si è verificata una brusca frenata per i partiti di governo. Essi non raggiungono più la maggioranza assoluta del voto popolare, fermandosi al 48,8%. La DC tocca il suo minimo storico, con il 29,7% e gli eredi del PCI raccolgono solo il 21,7%. Il principale beneficiario della crisi dei partiti tradizionali risulta la Lega Nord, che con il 23% dei voti diviene secondo partito della Lombardia, vicinissima alla DC (24%). Persino nella ex roccaforte “bianca” del Veneto la DC si ferma al 31,5%, mentre la Lega consegue il 17,8. Le elezioni si svolgono in un clima connotato dai riflessi delle inchieste della Magistratura su numerosi episodi di corruzione della classe politica (la “Tangentopoli” evocata dai media) e nel Nordest una borghesia di piccola e media impresa protagonista di una crescita economica straordinaria e in cerca di rappresentanza ed efficienza non più garantite da quella DC che per mezzo secolo era stata il suo referente unico, ritira la delega ai partiti di governo e premia il partito guidato da Umberto Bossi, aprendo così una transizione politica che di fatto non si è mai conclusa.
Molte interpretazioni sono state date a processi cosiffatti. Da un lato, erano gli anni Novanta caratterizzati da entusiasmi globalisti e liberisti e alcuni osservatori pensavano che gli Stati nazionali fossero diventati obsoleti (come i partiti e l’intervento pubblico nell’economia) e il futuro appartenesse a realtà subnazionali finalmente liberate da forme di controllo centralizzato. Abbiamo potuto constatare di quanto materiale illusorio fossero costruiti quegli scenari. Tuttavia, dall’altro lato, altri analisti recuperavano e approfondivano tradizioni di ricerca dalla sociologia (la “Terza Italia” della crescita legata alle piccole e medie imprese, distinta sia dal Meridione sia dal Nord-Ovest della grande fabbrica), dalla storiografia (il “Veneto lungo” quale costruzione stratificata nel lungo periodo di elementi specifici della società locale) e dalla scienza politica (i conflitti territoriali quali alimento di identità collettive e potenziali veicoli di mutamento), dando vita a filoni analitici non effimeri.
Trent’anni dopo, in una situazione molto differente, con un Veneto provato dalla crisi economica e dal Covid, è utile e opportuno che si tenti un bilancio non solo di quella stagione politica, ma anche dei modi con cui è stata interpretata. Giandomenico Cortese, sul Corriere del Veneto dell’11 giugno, ha affermato con chiarezza: «Oggi, il confronto su questo tema trova nuovi adepti. E prova a riscaldarsi con una visione, retrospettiva e critica. In primis cercando di rileggere storicamente e nutrire simpatie per il riformismo illuminato non solo dei Costituenti, i “professorini” della nuova Repubblica, e poi per le intuizioni che, negli anni Sessanta- Settanta, con i governi a guida di Mariano Rumor […] hanno ridisegnato le pensioni, avviato una nuova politica sanitaria, definito lo statuto dei lavoratori». C’è poco da eccepire. Siamo anche noi convinti che il ruolo dei partiti storici, come la DC (e non solo), sia da rivedere e rivalutare. Restiamo perplessi, invece, riguardo alla successiva lettura relativa agli anni Ottanta-Novanta: «Erano i tempi, carichi di intuizioni targate Bisaglia e De Michelis, e qualcuno li ascoltava. Nella rilettura odierna vengono, da alcuni analisti, ridimensionate invece le suggestioni non sempre produttive della stagione del Nordest di Giorgio Lago e della “Costituente veneta”». È davvero il caso di ridimensionare il contributo di Giorgio Lago? E perché mai? Lago diventa direttore del Gazzettino, il principale quotidiano Veneto, nel giugno 1984, alcuni mesi dopo il passaggio di proprietà della testata dalla DC a una public company formata da quarantotto azionisti provenienti dalla piccola e media impresa veneta, capitanati da Luigino Rossi, industriale calzaturiero della Riviera del Brenta. Per il Gazzettino è una svolta traumatica: da testata di sostegno alla componente più moderata della DC locale, il giornale veneziano diviene il riferimento trasversale dei riformisti dell’Italia nordorientale, con costanti aperture ai temi del federalismo e dell’ambientalismo. È su queste pagine che viene politicizzato il termine “Nordest”, quale area eccedente i confini amministrativi della Regione Veneto, coincidente con gli ex possedimenti di terra della Repubblica Serenissima e considerato da Lago quale possibile motore di un processo riformista e federalista in grado di rinnovare il paese. Nella seconda metà degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta il “Gazzettino” di Lago incalza l’intero sistema dei partiti sul tema delle riforme, sostituendo allo slogan “prima il Veneto” proprio della Lega un alternativo “il Veneto per primo”: il Veneto, cioè, come luogo d’ innesco di un vasto processo di cambiamento volto a modernizzare una Repubblica che aveva perduto lo slancio dei suoi momenti migliori.
È un dato storico che i soggetti ispirati dall’azione riformista di Giorgio Lago, il Movimento dei Sindaci, promosso dal primo cittadino di Oderzo Bepi Covre, e il successivo Movimento del Nordest, guidato dall’allora Sindaco di Venezia Massimo Cacciari e dall’imprenditore Mario Carraro, non siano riusciti ad affermarsi politicamente e a contrastare la grande forza della Lega. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che le proposte di Lago (e quelle successive di Cacciari e Carraro) nascevano in un contesto in cui già erano evidenti le difficoltà da parte dei partiti tradizionali di interpretare e governare una società locale in profonda trasformazione e che comunque, sia pur per una breve stagione, i sindaci, rafforzati dall’elezione diretta introdotta nel 1993, hanno “prodotto” figure di primissimo piano, capaci di promuovere quelle innovazioni che a livello nazionale erano a lungo mancate. Negli anni Novanta il Veneto ha dato un enorme contributo «a mettere a soqquadro il Paese», per utilizzare un’espressione provocatoria di Mario Isnenghi, e l’ha fatto non perché sobillato da Giorgio Lago o da Massimo Cacciari, ma perché qui, a fronte di trasformazioni socioeconomiche rapidissime, il sistema dei partiti ha mostrato la corda prima e più che altrove, a fronte di una società dinamica che sempre più mal sopportava il confronto con i competitori stranieri.
Altre recenti interpretazioni sulle origini della crisi italiana non ci convincono appieno. Come quella proposta da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 13 giugno, in cui, recensendo Andrea Carandini, rintraccia le cause del nostro attuale declino nell’abbandono da parte di porzioni della borghesia italiana della tradizione del liberalismo classico a favore della vicinanza con il PCI prima e nell’adesione ad un azionismo di massa poi, considerati quali incubatori di populismo. Non convince perché l’epicentro della crisi non è stato nelle zone “rosse”, per effetto degli eredi del PCI o dell’azionismo. Se prescindiamo per un istante dal “populismo” (autentico spauracchio che spunta ovunque a turbare i sonni dei moderati) e ci concentriamo invece sull’origine delle insorgenze protestatarie contro le classi dirigenti tradizionali possiamo vedere che l’epicentro della crisi apertasi negli anni Novanta è stato nei ceti produttivi settentrionali e in particolare nordestini. Ed è molto probabile che una via d’uscita dall’impasse attuale consista nel ripristinare forme di rappresentanza di interessi e di passioni a muovere da quei contesti locali sui quali osservatori come Giorgio Lago invitavano a prestare la massima attenzione.
Pubblicato su Domani del 23 giugno 2021