(Roberta Polese intervista Marco Almagisti)
- Prima di tutto spieghiamo di cosa si parla nel libro, che tipo di indagini sono state fatte e cosa dimostrano.
Questo libro è il frutto di vent’anni di ricerca sul sistema politico italiano analizzato dalla prospettiva territoriale e attraverso il metodo dell’analisi storica comparata. La scienza politica si chiede sempre cosa influenzi lo stato di salute della democrazia. Sappiamo che oltre ad una buona costituzione ed istituzioni efficaci risulta importante che i valori della democrazia siano radicati nella cultura politica dei cittadini, facciano parte della nostra vita quotidiana. In questo libro ho cercato di ricostruire l’evoluzione della nostra democrazia attraverso lo scorrere del tempo. Accanto ai grandi eventi storici, nelle pagine del libro, ho cercato di evidenziare i sentieri in cui si formano e cambiano le culture politiche diffuse, ossia quell’insieme di norme sociali condivise, pratiche, visioni del mondo che hanno contribuito a definire nel corso del tempo l’identità di milioni di italiani.
In questi anni – e sono convinto che questo conti molto e costituisca una differenza significativa fra le due edizioni del libro – ho potuto nutrirmi del confronto costante con gli studenti del corso di Scienza politica dell’Università di Padova e del lavoro quotidiano dell’Osservatorio DANE – Democrazia a Nordest del Centro di Studi regionali “Giorgio Lago”, sempre dell’Ateneo patavino e in particolare con Paolo Graziano e Matteo Zanellato. Credo che Dante Alighieri avesse ragione a definire gli esseri umani quali “compagnevoli animali”. Grande o piccina che sia, di ogni nostra opera dobbiamo sempre ringraziare il contributo che deriva dagli altri.
- Passiamo all’attualità, secondo lei che prezzo paga la democrazia francese a fronte di una legge, come quella delle pensioni, proclamata da Emmanuel Macron nonostante la forte opposizione del popolo sceso in piazza?
Una porzione molto ampia di cittadini è contraria alla riforma voluta da Macron e si mostra avversa alle sue scelte politiche. Soprattutto fra i ceti popolari sono avvertiti con nettezza i costi delle molteplici crisi che stiamo affrontando da anni (crisi economica, crisi ambientale, cui si aggiungono negli ultimi anni l’impatto della pandemia Covid-19 e della guerra in Ucraina). Inclusione e protezione dalle molteplici insidie della vita contemporanea sono temi centrali e lo saranno sempre di più nei prossimi anni. A livello istituzionale, paiono usurarsi i modelli di democrazia ispirati essenzialmente alla “governabilità”, obiettivo primario delle ricette prescritte dalla Commissione Trilaterale ancora negli anni Settanta. La Commissione Trilaterale è un think tank fondato il 23 giugno 1973 per iniziativa di David Rockfeller, presidente della Chase Manhattan Bank, per raccogliere le élite economiche, politiche e intellettuali delle aree geopolitiche dell’Europa, del Nord America e di Asia-Oceania. In un famoso rapporto commissionato dalla Trilaterale (M. Crozier, S. P Huntington, J. Watanuki La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Franco Angeli, 1977) si sosteneva la necessità di “raffreddare” la partecipazione popolare onde evitare la crisi della democrazia. A distanza di cinquant’anni possiamo dire che la tendenza al raffreddamento della partecipazione popolare, che ha caratterizzato gli ultimi decenni, ha aggravato lo stato di salute di molte democrazie, producendo, da un lato, apatia e disillusione (riscontrabile nei tassi crescenti di astensionismo elettorale), dall’altro lato, esplosioni di protesta difficilmente ignorabili. Pertanto, inclusione e partecipazione dei cittadini restano questioni essenziali per le democrazie, assieme al ripensamento di luoghi e strumenti idonei e adeguati al mutato contesto delle nostre società. Inoltre, le democrazie parlamentari sembrano affrontare meglio il ritorno della conflittualità sociale. Se il semi-presidenzialismo francese è oggi messo alla prova, ricordiamo anche le scosse traumatiche caratterizzanti in questi tempi i sistemi presidenziali, ossia quei sistemi nei quali la figura del Capo dello Stato e del capo del governo coincidono. Notoriamente, i più importanti sistemi presidenziali al mondo sono gli USA e il Brasile. Negli ultimi anni in entrambi questi paesi abbiamo visto contestare la regola base della democrazia liberale, ossia il rispetto del verdetto elettorale e la pacifica trasmissione del potere politico.
- Ora l’Italia ha il governo più a destra di sempre, eppure da noi la destra non si è mai emancipata dal fascismo, ciclicamente i partiti di destra fanno un enorme sforzo a dire che sono antifascisti. Ma ha ancora senso parlare di antifascismo?
Esiste una continuità fra il ceto dirigente di Fratelli d’Italia e l’esperienza pluridecennale del MSI. Giorgia Meloni sta cercando di costruire una propria posizione differente, da leader conservatrice. Naturalmente, cerca di realizzare tale processo senza causare strappi nel personale politico del suo partito e, soprattutto, nel suo elettorato. L’ 80% dell’elettorato di FDI ha scelto di votare quel partito alle ultime elezioni in virtù della sua leader, ma esiste anche una componente più connessa alla storia della destra italiana e Giorgia Meloni deve tenerne conto. Mi pare che abbia fatto tesoro dell’esperienza relativa all’evoluzione dell’ex PCI. Ossia che stia cercando di non farsi dettare i tempi e i modi del mutamento della propria cultura politica dalle testate giornalistiche. Nel caso degli eredi del PCI la pressione dei mass media era molto evidente e condizionante.
- È curioso notare che in Italia attribuiamo grandi competenze e capacità ai governi tecnici (es Mario Draghi) che non sono frutto di consultazioni popolari, non è una contraddizione?
In una democrazia parlamentare i governi non sono “eletti”, come spesso viene detto da alcuni, in modo del tutto improprio. Si eleggono i rappresentanti in Parlamento e lì si forma – o meno – una maggioranza a sostegno di un esecutivo. I governi sono sempre “politici”, perché sono chiamati a prendere decisioni politiche fondamentali. E, in una Repubblica parlamentare quale la nostra, per esistere debbono avere la fiducia di una maggioranza parlamentare. L’utilizzo del termine “governo tecnico”, che, non casualmente, risale agli anni Novanta, deriva dalla crisi del sistema dei partiti, collassato proprio all’inizio di quel decennio, e costituisce un’anomalia italiana nel contesto delle democrazie consolidate. Pertanto, i governi c.d. “tecnici” costituiscono, in realtà, esecutivi guidati da personalità esterne rispetto al sistema dei partiti, provenienti, nel nostro caso, dalla Banca d’Italia o dall’Università Bocconi. Che il ricorso reiterato a governi “tecnici” danneggi ulteriormente la reputazione del sistema dei partiti è ormai evidente. Se i partiti, per gestire le terribili conseguenze prolungate della crisi economica esplosa nel 2008, ricorrono ad un governo “tecnico”, come è stato fatto nel 2011, poi non ci si può stupire troppo se si moltiplicano i consensi delle forze “anti-establishment”, ossia di forze politiche la cui identità si fonda sulla aperta contestazione delle classi dirigenti.
- Ha senso parlare di una scuola di politica? Da noi i partiti fanno scuola politica? cosa succede negli altri paesi?
Certo che ha senso. I partiti di massa avevano le proprie scuole di politica e all’estero numerosi partiti le hanno ancora. In Italia, dopo il collasso dei primi anni Novanta, molti hanno pensato che la costruzione delle competenze specifiche per l’attività politica non fosse più necessaria, che bastasse attingere direttamente alla c.d. “società civile”. Ma è stato un abbaglio. Non a caso ora i partiti stanno cercando di porre riparo a questa situazione. Voglio sottolineare, ancora una volta, il ruolo di supplenza svolto dalla Chiesa, a questo proposito, con le Scuole di Formazione.
- La prima edizione di “una democrazia possibile” è dei primi mesi del 2016, poi Trump ha vinto e elezioni, c’è stata la Brexit, è arrivato il Covid-19 (dove abbiamo sperimentato la sottrazione di democrazia) e infine la guerra. Che cosa cambia in questa seconda edizione, che eredità abbiamo avuto da tutti questi cambiamenti?
La prima edizione del 2016, in realtà, è stata scritta nel 2015 e risentiva ancora di quel poco di ottimismo rimasto dalla stagione politica precedente: ricordiamo che il Novecento si era concluso con una diffusione territoriale della democrazia senza precedenti. Del resto, basta scorrere le prime pagine del libro per osservare la distanza abissale che separa la prima edizione del 2016 da quella attuale, arrivata sei anni dopo. Nell’edizione iniziale, il libro si apriva così: «Oggi la maggior parte degli abitanti del pianeta è cittadina di uno Stato democratico». Nel 2022 il contesto è decisamente mutato: «La quota della popolazione mondiale che vive in sistemi non democratici è cresciuta dal 49% del 2011 al 70% del 2021». Ecco qua perché è utile tornare a riflettere sulle condizioni che rendono possibile una democrazia.
- La democrazia sembra essere il migliore dei mondi possibili. In Iran protestano per avere più libertà, Taiwan la dovrà difendere a breve, che tipo di democrazia è quella che vogliono questi paesi? Quella che abbiamo noi?
Negli ultimi anni, se è vero che cresce l’insoddisfazione verso il modo in cui funziona la democrazia nei sistemi democratici consolidati e che, anche approfittando delle ristrettezze imposte dalla pandemia di Covid-19, alcuni sistemi politici hanno imboccato la strada del ritorno verso l’autoritarismo, allo stesso tempo le manifestazioni a favore della democrazia aumentano e si irrobustiscono in molti paesi che democratici non sono. Questo dovrebbe farci riflettere molto. Spesso queste manifestazioni riguardano le componenti “liberali” delle democrazie: limiti alle azioni dei governi, rispetto della rule of law (letteralmente “governo della legge”), dei diritti dei cittadini e delle cittadine, delle libertà essenziali. In questi paesi chi si mobilita vuole poter godere di diritti simili ai nostri: cominciando dai diritti civili, politici e sociali. Le donne in Afghanistan, le studentesse in Iran, i cittadini a Taiwan, chi protesta ad Hong Kong, gli elettori della Birmania lottano per raggiungere, difendere o conservare quel precario equilibrio tra diritti e libertà che definiamo democrazia liberale. Se nelle democrazie consolidate a volte tendiamo a dare queste condizioni come scontate, sono le azioni di chi oggi aspira alla democrazia a ricordarci quanto essa sia rara e preziosa.
- Nel libro si parla di capitale sociale. Che cos’è?
Il capitale sociale è un concetto metaforico, che utilizziamo nelle scienze sociali, per indicare il fondamento della solidarietà sociale, ciò che tiene assieme la società o alcune sue componenti. In Sociologia e Scienza Politica circolano molteplici definizioni del concetto. Ormai trent’anni fa, in una celebre ricerca sulle regioni italiane (La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, 1993), un maestro della Scienza Politica quale Robert Putnam diede una definizione che mi pare ancora appropriata. Per capitale sociale Putnam intende “la fiducia, le norme che regolano la convivenza, le reti di associazionismi civico, elementi che migliorano l’efficienza dell’organizzazione sociale promovendo iniziative prese di comune accordo”.
- Capitale sociale veneto, capitale sociale toscano, come sono cambiati e dove ci hanno portato?
Nella già citata ricerca di Putnam del 1993 Veneto e Toscana appartengono al vasto insieme delle regioni centro-settentrionali relativamente ricche di capitale sociale. Una delle motivazioni che mi ha indotto a intraprendere questo percorso di ricerca, ormai parecchi anni fa, è stata proprio la necessità di addentrarmi nei diversi percorsi storici di costruzione del capitale sociale. Essendo contesti locali differenti, con una storia e, soprattutto, esperienze istituzionali diverse alle spalle, regioni quali il Veneto e la Toscana hanno sedimentato tipi di capitale sociale diversi. Il Veneto era considerata zona “bianca”, non solo per i risultati elettorali della DC, ma per il preponderante ruolo sociale ricoperto dalla Chiesa. La radice di tale configurazione risale ad epoche remote, agli assetti interni della Repubblica Serenissima e all’epoca della Controriforma, ma si sono rafforzati anche nelle epoche successive. Riguardo ad un “Regolamento generale” relativo alla istruzione pubblica promulgato nel 1818 dal governo austriaco che prevede che in ogni parrocchia vi sia una scuola elementare, lo storico Silvio Lanaro ha scritto: “se appena si considera che allora le parrocchie venete sono 1.663 e i comuni invece 804 si può subito intuire su quali radici poggi la secolare influenza del clero presso le popolazioni della città e della campagna”. Ironia della storia, nello stesso anno nel Granducato di Toscana si afferma il principio per il quale lo Stato considera proprio dovere intervenire nell’amministrazione degli enti di beneficenza e nella tutela della salute della generalità dei sudditi. Si tratta dell’unico Stato italiano dell’epoca in cui, su tali questioni, l’attività della Chiesa sia considerata sussidiaria. Sono differenze significative presenti già nel periodo pre-unitario. Le mobilitazioni sociali di fine Ottocento e dei primi due decenni del Novecento, hanno rafforzato profili di cultura politica locale differenti, per effetto delle diverse élite in grado di guidare le proteste (guidate dai cattolici nell’Italia nordorientale e soprattutto da movimenti e partiti di sinistra nell’Italia di mezzo). Per entrambi i contesti territoriali dobbiamo ricordare che in Italia la formazione delle culture politiche territoriali precede la nascita dei partiti di massa, i quali, pertanto, debbono radicarsi in contesti già in parte strutturati e stratificati da dinamiche storiche plurisecolari. In altri termini, essi debbono adattarsi alle caratteristiche dei contesti locali di radicamento, confrontandosi quotidianamente con il peso di significative costanti di lungo periodo, funzione tipica svolta dalle organizzazioni partitiche in paesi dai difficili processi di consolidamento democratico nel corso del Nocevento. Nell’Italia repubblicana deve essere riconosciuto il ruolo di partiti quali la DC e il PCI nel contenere l’antagonismo di lungo periodo nei confronti del sistema politico nazionale e di gestire la polarizzazione conseguente dal sovrapporsi di linee di frattura molto profonde. Ricordiamo che nell’Italia nordorientale e centrale si svilupperanno sistemi di piccola e media impresa che emergeranno impetuosamente nella parte finale del Novecento. Oggi quei partiti non ci sono più e le nostre società locali sono fortemente secolarizzate. Sarebbe un errore, però, considerarle ormai prive di capitale sociale. Le ricerche più recenti confermano la presenza consistente di capitale sociale, assieme, però, alla difficoltà di trasformare tale capitale sociale in risorsa politica.
- Parliamo del Veneto: che fine faremo? abbiamo ancora questo senso di insofferenza nei confronti di Roma? Passano gli anni e abbiamo ancora questa strana sensazione di sentirci trascurati dalla politica nazionale, è così?
In Veneto, una componente di lungo periodo della cultura politica che permane è il “localismo antistatalista”, che caratterizza una storica diffidenza verso le istituzioni politiche nazionali, in buona parte compensata dalla fiducia riposta nella società locale e in quelle figure che si mostrano disposte alla sua salvaguardia. Buona parte del vastissimo consenso di cui gode Luca Zaia deriva dalla sua abilità di riconnettersi con queste componenti di lungo periodo della cultura politica locale, presenti soprattutto nei contesti extra-cittadini. Vedremo cosa comporterà il rapido aumento di consensi verso un partito, quale Fratelli d’Italia, che propone un’offerta politica molto più connotata a livello nazionale. Tuttavia, il tema dell’autonomia e anche dell’eredità di Zaia restano sulla ribalta pubblica, mentre affiorano questioni destinate a rimanere nell’agenda della società locale: la salvaguardia della sanità pubblica, la tutela dell’ambiente e del sottosuolo, che in Veneto ha conosciuto, anche recentemente, esperienze drammatiche.
Inoltre, ritengo che nei prossimi anni un tema centrale sarà la ricostruzione di un rapporto con le istituzioni politiche centrali non solo basato sulla storica frattura centro/periferia. Ossia diventerà decisivo il modo in cui contribuire alla guida del paese con le idee ed esperienze che maturano nel Nordest, in questi decenni terra di frontiera di molti fenomeni innovativi.
- Partiti e identità: il caso di Elly Shlein, l’intervista a Vogue e l’armocromia: non l’hanno capita perché non capiscono il mondo di oggi o è davvero così sideralmente lontana dalla gente?
La comunicazione è sempre stata centrale nell’attività politica. Sono dimensioni assolutamente inestricabili. Oggi, nell’era social, se possibile, diventano ancora più compenetrate. Ci mancherebbe pure che una leader non ricorresse a consulenze specialistiche. Anche riguardo l’abbigliamento: ricordiamoci che le componenti non verbali della comunicazione sono decisamente prevalenti rispetto a quelle verbali. L’aspetto delicato riguarda la gestione delle informazioni. Elly Schlein ha dato a Vogue un’intervista approfondita e articolata, ma, poi, indicando quel breve riferimento esplicito all’armocromista ha offerto al sistema mediatico l’occasione per oscurare tutto il resto e parlare solo di quell’elemento puntuale. Nella media logic prevale il dettaglio che colpisce l’attenzione e moltiplica le possibilità di condivisione (e di contrapposizione, in una società altamente polarizzata quale la nostra) sulla riflessione articolata.
- La democrazia si conquista una volta per tutte?
No. La storia del Novecento ha dimostrato, anche a noi italiani, che, purtroppo, il processo di democratizzazione è reversibile e che i nemici della democrazia possono utilizzare gli stessi istituti democratici per svuotare di senso una Costituzione democratica e, alla fine, distruggere la democrazia. Pertanto, la costruzione di un buon sistema democratico, la sua manutenzione, il suo buon funzionamento sono elementi importantissimi, ma, alla fine, resta vero quanto affermò molti anni fa un grande politologo quale Maurice Duverger: “La democrazia si fonda soprattutto sulle credenze radicate nel cuore degli uomini”. Aggiungerei solo “e delle donne”.